Una sociolinguista preparata alle metodologie più raffinate della scuola anglosassone, Nora Galli de’ Paratesi, condusse un’indagine sulle opinioni linguistiche di cittadini intervistati a Milano, a Firenze e a Roma, per verificare quale tipo di italiano si parlava nei tre centri e che giudizi si davano sulle principali varietà di italiano, ovvero sull’accento milanese, fiorentino, romano, RAI (Galli de’ Paratesi 1977). L’indagine fu poi ampliata ed approfondita, con l’aggiunta di inchieste condotte a Napoli (Galli de’ Paratesi 1984), ma era inevitabile che i suoi risultati fossero oggetto di polemiche, nelle quali generalmente si contestarono le conclusioni dell’autrice, troppo favorevoli verso la varietà milanese di italiano. In particolare, è stato osservato che i «dati di Galli de’ Paratesi (1984) mostrerebbero […] che non esiste un polo standardizzatore, ma esistono poli standardizzati […] Scarso è l’interesse a conformarsi sia all’“accento della Rai” sia al modello fiorentino; e, anche se i dati di Galli de’ Paratesi […] sulle opinioni mostrano preoccupanti testimonianze di intolleranza e sanzione socio-culturale nei confronti dell’accento meridionale, bisogna ammettere che di fatto vi è una larga abitudine a capire e fondamentalmente a tollerare pronunce difformi» (Berruto 1987 : 96; ma ci sarebbe molto da discutere su questa presunta abitudine a tollerare pronunce meridionali, anche alla luce di certe dichiarazioni pubbliche di politici “padani”; cfr. inoltre Berruto 1986 e Trifone 1992 : 91).
A riesaminare oggi gli studi della Galli de’ Paratesi, si rimane ancora più colpiti dalle chiare e forti connotazioni razzistiche delle risposte degli intervistati non meridionali (Galli de’ Paratesi 1984, 143-205). Riassumendo, l’autrice notava, già nel suo primo studio: «La qualità degli stereotipi sociali associati con gli accenti meridionali è pienamente evidente ed esplicita nella sua versione negativa, specialmente nei giudizi sociali: “volgare” (molto frequente), “inferiore”, “ignorante”, “addormentato”, “lo detesto come la peste”, “primitivo”, “sottosviluppato”, “pigro, per quanto io non sia razzista”. E molti altri di tipo completamente derogatorio. Un gruppo più interessante sono quei giudizi che accennano ad ostilità da parte dei meridionali: “sono ostili”, “sono sospettosi”, “è come se lo facessero apposta a parlare così”, “reticente”, dove vi è un tipico e interessante meccanismo in azione, in cui l’ostilità nel soggetto è proiettata sull’oggetto dell’ostilità stessa […] Questa ostilità proiettiva è, per esempio, il caso dello stereotipo antisemita in cui l’Ebreo viene indicato come il vero razzista, con l’argomento che sono loro che non vogliono integrarsi e sono ostili» (Galli de’ Paratesi 1977 : 160). Le punte “razziste” sono presenti nelle opinioni espresse dai milanesi e dai fiorentini: «Molti giudizi sono di tipo normativo e sono piuttosto arroganti: l’accento dei meridionali è “storpiato”, “sempre misto di dialetto”, “non è neppure italiano”, “arabo”, “straniero”, “schifoso”, “disgustoso nel vero senso della parola”. Tali giudizi sono tratti dai campioni milanese e fiorentino; in quello romano i giudizi normativi ed estetici sono in realtà più miti: “cattivo italiano”, “dialettale”, “cattivo accento”, e simili» (Galli de’ Paratesi 1977 : 161). Quanto ai milanesi l’autrice osservava: «Non è sorprendente riscontrare che Milano è il centro più standardizzato e al tempo stesso il più ostile ad immigrati delle zone sottosviluppate. Per quanto sia un aspetto negativo del quadro sociolinguistico dell’Italia contemporanea, è estremamente coerente ed è la conseguenza naturale ed inevitabile della forma presa dallo sviluppo del paese» (Galli de’ Paratesi 1977 : 161). Da queste ultime riflessioni si comprende piuttosto chiaramente l’atteggiamento generale della Galli de’ Paratesi nei confronti dei dati a sua disposizione. Il razzismo linguistico (ed aggiungerei, non solo linguistico), pure se giudicato «aspetto negativo», è in sostanza ritenuto «naturale ed inevitabile», dal momento che esso è il risultato di un particolare e sbilanciato sviluppo del paese. Inoltre, non si tratta, come si sarebbe potuto pensare, di atteggiamenti determinati da difetto di cultura e di educazione civile e democratica, dal momento che «i pregiudizi sono più forti ai livelli sociali ed educativi più alti» (Galli de’ Paratesi 1977 : 162). Di fronte ad un simile iato tra il binomio cultura-italofonia, da una parte, e i valori più profondi della democrazia, dall’altra, vien fatto di pensare alla beffarda ironia con cui la storia ha attuato a suo modo la prospettiva ascoliana, secondo la quale l’italofonia si sarebbe diffusa in Italia con il crescere del tasso di cultura e di civiltà.
Nel volume del 1984, Lingua toscana in bocca ambrosiana (Galli de’ Paratesi 1984), è ancora più facile cogliere il non sempre dissimulato compiacimento per il fatto che Milano sia definibile come la capitale economica del paese e per la supposta conseguenza che il fenomeno della standardizzazione linguistica partirebbe dal capoluogo lombardo per irradiarsi in tutta Italia. Anzi, all’erezione a modello dell’italiano di Milano, non può non corrispondere una sottile polemica contro i difensori del toscano. Sbagliano, infatti, coloro che continuano a considerare un punto di riferimento il “fiorentino emendato” ritenendo che esso rappresenti tipologicamente, per la sua medianità, un compromesso tra le varietà settentrionali e quelle centro-meridionali, dal momento che «non è stata la centralità geografica e tipologica del toscano che ne ha fatto la lingua nazionale, ma una serie di eventi storici ben noti, cioè il predominio economico e culturale della Firenze comunale. Per un breve periodo il dialetto siciliano è stata la lingua letteraria italiana sotto il regno di Federico II di Svevia e, se la vittoria degli Angiò non avesse distrutto il potere degli Hohenstaufen in Sicilia, il siciliano avrebbe potuto diventare la lingua letteraria e, in seguito, lo standard, anche senza essere tipologicamente “centrale”» (Galli de’ Paratesi 1984 : 43). Insomma, Firenze dovrebbe oggi fare largo a Milano, allo stesso modo in cui in passato le cedette Palermo. Inoltre, non si capisce spesso la ragione dell’accanimento contro certe pronunce tosco-fiorentine, come per esempio di bascio per bacio, e lo scarso peso assegnato a peculiarità milanesi, del tipo di zio tendente a sio (a non voler parlare, nella stessa parola, della pronuncia sonora dell’affricata z, che ovviamente la Galli de’ Paratesi difende e sostiene). Ancora oggi, nel parlato di un milanese colto come Silvio Berlusconi, il “grande comunicatore”, che per di più ha fatto studi di dizione e che, come è noto, controllava e correggeva personalmente la pronuncia dei collaboratori lombardi delle sue prime emittenti televisive, è ancora possibile cogliere suoni del tutto estranei a qualunque supposto standard, quali incertèzza, vendètta, promèssa, ogni (tendente ad oni), tennico (invece di tecnico) ecc. D’altro canto, sempre più spesso negli ultimi anni si assiste ad inversioni di tendenza rispetto alla penetrazione di tratti dell’italiano settentrionale nel Centro-Sud, per cui, per esempio, la s intervocalica sonora generalizzata è in forte riduzione lontano dal Nord, mentre anche personaggi pubblici (cioè “televisivi”) settentrionali cominciano ad adottare la s intervocalica sorda in alcune parole particolarmente frequenti (si ascolti con attenzione un discorso dello stesso Berlusconi). Bisogna dunque convenire con Mengaldo, che con un certo equilibrio (è anch’egli settentrionale) nota: «Per la pronuncia la Galli de’ Paratesi 1977 e 1984 ha concluso (ma forse in fretta) per una preminenza di Milano, almeno su Firenze […] Comunque, la dislocazione dell’industria favorisce il Nord e forse soprattutto Milano; ma la concentrazione dei mezzi di comunicazione di massa a Roma va a favore di quest’ultima? I giochi sono tutti da fare» (Mengaldo 1994 : 103). Si consideri inoltre che, com’è forse naturale, i linguisti romani continuano a sottolineare la capacità di penetrazione del romanesco nelle altre regioni grazie al cinema oltre che alla televisione, mentre i linguisti settentrionali ribattono che nel Nord si avverte una forte reazione contro forme anche attenuate provenienti da Roma (cfr. per es. lo stesso Mengaldo 1994 : 75).
Del resto, non sempre tendenze di sviluppo riscontrate in passato hanno mostrato una vitalità inarrestabile. Timbri come quelli di témpo, béne sono preponderanti solo laddove il sostrato dialettale li fa affiorare nell’italiano regionale o locale in tutta Italia (e per di più sono in continuo conflitto con le varianti tradizionali tèmpo e bène, che hanno dalla loro il baluardo della pronuncia romana e televisiva); la s intervocalica sonora viene ormai generalmente respinta da Roma e dal Meridione anche dove è presente in toscano, mentre accade ormai non di rado di sentire settentrionali “colti” (come il citato Silvio Berlusconi, che pure si vanta di aver insegnato ai figli a parlare brianzolo) pronunciare tali s come sorde; la z iniziale di parola tende sì ad essere resa come sonora anche nell’Italia centro-meridionale, ma seguendo una tendenza endogena piuttosto antica. È anzi curioso il fatto che da quando anche il Meridione ha adottato nelle varietà regionali di italiano la z iniziale sonora come forma normale, il linguaggio della pubblicità ha cominciato a ricorrere spesso alla z iniziale sorda – ritenuta evidentemente più “nobile” e quindi più suggestiva – in parole piuttosto frequenti come zucchero, zuppa, ecc. (soprattutto quando a parlare è un’autorevole e persuasiva voce fuori campo). Addirittura, in una recente pubblicità rivolta ai ragazzi, uno zainetto è stato proposto ai giovani acquirenti con la pronuncia sorda dell’iniziale, per un evidente, quanto mai significativo, ipercorrettismo. Se è vero che queste ora citate sono «le sole caratteristiche del Settentrione per cui sia testimoniata un’espansione» (Berruto 1987 : 98), sembra oggi davvero molto difficile ipotizzare una ristandardizzazione di marca settentrionale. E conseguentemente diventa anche poco plausibile e del tutto infondata da un punto di vista scientifico una “criminalizzazione” delle pronunce meridionali dell’italiano.
Quando furono pubblicati i dati della Galli de’ Paratesi l’Italia non sospettava neppure di essere in certa misura “razzista”. Oggi quei dati, di cui si è al lungo minimizzato l’allarmante tasso di pericolosità sociale, sono quotidianamente confermati ed avvalorati da affermazioni ed iniziative portate avanti persino da partiti politici. Basta ascoltare un dibattito su problemi come il fisco, la disoccupazione, l’economia e l’istruzione, per rendersi conto di quanto sia radicata l’avversione nei confronti del finanziere meridionale, accusato di non parlare correttamente e di risultare quindi incomprensibile all’imprenditore veneto o lombardo solo perché mostra una leggera cadenza non settentrionale, oppure nei confronti della maestrina che, oltre a togliere posti di lavoro ai cittadini del Nord, sarebbe colpevole di diseducare i bambini “padani” con la sua pronuncia “straniera”. La criminalizzazione linguistica del Meridione si manifesta anche nelle ricorrenti proposte di sottotitolare attori napoletani come Troisi o romani come Verdone. Non solo, ma tali atteggiamenti sono divenuti, senza il paravento di ormai “inutili ipocrisie” ideologiche, punti fondamentali di riferimento di uomini politici eletti democraticamente a sedere nel Parlamento italiano o di sindaci ed assessori comunali che, per dire solo l’ultima, hanno determinato di istituire una segnaletica bilingue (padana / italiana) per sottolineare maggiormente la propria distanza da quella lingua che ha la colpa di essere anche dei centro-meridionali.
Attualmente la maggioranza degli studiosi di linguistica italiana (anche all’interno della prestigiosa Accademia della Crusca, presieduta ora per la prima volta da un non toscano, l’abruzzese Francesco Sabatini) adotta un punto di vista che potremmo definire orientato verso un moderato “liberalismo linguistico”. Tuttavia, un tale atteggiamento mostra a volte la sua inadeguatezza quando viene frainteso come anarchia grammaticale, o al contrario ogniqualvolta viene avanzata la proposta di adozione di un nuovo standard. In verità, una simile proposta fu sostenuta da Giulio Lepschy con intelligenza e passione una ventina d’anni fa. Presentando il libro The Italian Language Today che egli stesso con la moglie, Anna Laura Lepschy, aveva allora dato alle stampe, Lepschy si lamentò delle reazioni suscitate dalle proprie proposte relative all’insegnamento della pronuncia italiana agli stranieri, dicendosi colpito «dall’emergere di sentimenti e risentimenti che portano […] a dibattere invece altre questioni, dando sfogo allo scontento per le condizioni presenti, sociali e politiche, dell’Italia, e anche a un’esasperazione di vecchia data in cui risuonano toni allo stesso tempo particolaristici e nazionalistici per me alquanto stridenti. Con la fonetica si toccano dei nervi stranamente tesi» (Lepschy 1977 : 213). In sostanza, il grande linguista, esperto nel campo dell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, aveva avvertito prima di altri l’esigenza di mettere ordine nella babele linguistica italiana, per offrire ai propri studenti un modello univoco di riferimento, che avesse una reale corrispondenza con la realtà di fatto della lingua parlata nel nostro paese. Il modello individuato dallo studioso era l’italiano “settentrionale”, divenuto ormai, a suo modo di vedere, il punto di riferimento indiscutibile, perché dotato di maggior prestigio. Si capisce la meraviglia di Lepschy nel verificare l’atteggiamento di generale ostilità con cui si era guardato a una simile posizione: «Quella che a me appariva una proposta rinnovatrice, ispirata a un massimo di liberalismo linguistico […] è stata accolta da alcuni colleghi come un tentativo retrivo di imporre un nuovo normativismo, non più toscano ma settentrionale» (Lepschy 1977 : 215).
Il «liberalismo linguistico» cui esplicitamente fa riferimento Lepschy ha un’antica tradizione nel nostro paese. Già nell’Italia postunitaria si diffuse nel ceto colto un atteggiamento liberale nei confronti della lingua, che successivamente fu teoricamente sostenuto da Benedetto Croce. Antonio Gramsci si rese conto del pericolo insito in simili posizioni, specie per le classi subalterne che allora si affacciavano all’italofonia, ed in particolare per le plebi meridionali, rigettando il liberalismo linguistico crociano e gentiliano e schierandosi con forza con coloro che continuavano a ritenere indispensabile l’adozione di una grammatica normativa scritta nell’insegnamento scolastico (cfr. la sintesi di Vignuzzi 1982 : 722 e sgg.). La “linguistica democratica” degli anni ’70 ha riportato in auge l’atteggiamento liberistico pregramsciano. Ma, come avverte giustamente Vignuzzi 1982 : 734, bisogna evitare di «interpretare questa posizione [liberistica] come giustificazione, politica e teorica insieme, del rifiuto di intervenire ad accelerare (come imporrebbe anche una lettura corretta del testo gramsciano) la diffusione dello strumento linguistico di massa: una riedizione cioè aggiornata del lassez faire liberistico, che in questa prospettiva non avrebbe nulla di “democratico”». Anche Giovanni Nencioni ha fatto sentire la propria voce, con il solito pacato equilibrio non disgiunto da una forte incisività: «Era naturale che nel pulsivo e agitato lievitare del gran processo gli ideologi fiutassero l’occasione di scendere in campo a riaccendere i fuochi di quella questione della lingua che alcuni candidi linguisti credevano incenerita; a riaccenderli tirando l’evento ognuno dalla sua parte: o confondendo la lingua naturale con un mistilinguismo artificiato, o accusando la pur necessaria antievangelica lingua di tradizione letteraria, o invitando la scuola a un esercizio di lingua senza libro e senza grammatica, affidato alla spontaneità del parlato» (Nencioni 1994 : XXVIII).
Il nodo del problema è proprio quello evidenziato da Nencioni: la lingua, e non solo la lingua insegnata nelle scuole, non può svincolarsi completamente dalla grammatica, cioè dalla «pur necessaria antievangelica lingua di tradizione letteraria». L’idea è largamente condivisa da intellettuali, scrittori, insegnanti, giornalisti e via dicendo, i quali reagiscono levando grida di allarme ogni volta che il parlato sembra innescare meccanismi ristandardizzanti, come a proposito della riduzione dell’uso del congiuntivo o di alcuni alterati irrazionali, sul tipo di attimino. In verità, nonostante il tramonto di un atteggiamento normativo, la lingua italiana mostra una chiara tendenza conservatrice che è sufficiente a scongiurare, almeno per la scrittura, mutamenti vistosi nel sistema dei tempi storici o dei pronomi personali (cfr. Serianni 1986).
D’altra parte, sarebbe impossibile chiudere gli occhi di fronte al fatto che solo «quarant’anni fa la capacità d’uso attivo e abituale dell’italiano era ristretta a una minoranza che è stata stimata pari al 10-20 % della popolazione. […] Oggi l’86 % della popolazione afferma di avere una qualche pratica dell’italiano; solo il 14 % se ne dice estraneo […] Il mutamento, verificatosi a partire dagli anni cinquanta per la sinergia di diversi fattori (la grande migrazione dalle campagne del Sud e del Veneto verso il Nord-Ovest, il diffuso ascolto delle trasmissioni televisive, la rapida crescita della scolarità complessiva di tutta la popolazione), è stato enorme. L’italiano è diventato veramente, e non solo sulla carta delle leggi e di statistiche sommarie, la lingua comune, nazionale, degli italiani. Il parlato italiano è stato il grande protagonista collettivo di questo mutamento» (De Mauro 1994 : XXII). Tali costatazioni – a prescindere dalle eventuali discussioni sui dati statistici -, che fanno vibrare la nostra corda democratica, non devono far perdere di vista il fatto che il parlato è per sua natura entropico, quando non venga controllato e diretto dal cardine – per dirla dantescamente – della lingua letteraria. Il problema dei problemi resta proprio il contemperamento di uso e tradizione, ovvero di parlato e scritto.
In Italia, anche a causa della complessa storia della nostra lingua, il rapporto tra i suddetti fattori non è stato posto sempre nel modo più corretto. Già nel secolo scorso Graziadio Isaia Ascoli polemizzò contro le proposte linguistiche manzoniane, non per un presunto «sentimento antitoscano non certo degno d’un uomo come l’Ascoli» (Castellani 1986 : 107), ma piuttosto perché preoccupato degli effetti negativi che la lingua fiorentina parlata avrebbe potuto determinare sull’italiano letterario. Infatti, per Ascoli, l’arretratezza culturale italiana ed in particolare toscana alla fine dell’Ottocento faceva apparire improponibile l’adozione del fiorentino parlato, seppure delle classi colte. Per lui, la diffusione della lingua italiana sarebbe andata di pari passo con la crescita culturale del paese, come oggi rammentano spesso coloro che caricano tali sue affermazioni di un valore quasi profetico. Ma va anche ricordata, con Castellani, la sostanziale diffidenza di Ascoli – erede in ciò di un atteggiamento diffuso ed antico degli intellettuali italiani – nei confronti del parlato, in affermazioni come questa: «e come se in casa nostra fosse affatto chiaro che l’incremento della cultura stia in ragion diretta della prossimità o della maggior vicinanza fra parola parlata e parola scritta, laddove il vero è precisamente l’opposto» (in Castellani 1986 : 112).
Oggi la situazione appare profondamente modificata rispetto al secolo scorso e non sarebbe più pensabile parlare di lingua italiana riferendosi solo alla scrittura. Ma, come già nel Cinquecento osservò Varchi, se non si può scrivere come si parla, d’altra parte la scrittura deve partire dall’uso vivo e questo deve pur sempre fare riferimento a quella, sicché scritto e parlato possono e debbono interagire positivamente tra loro (cfr. Sorella 1995: 1. 2). Nel nostro secolo la pronuncia “grammaticale” di tipo tosco-fiorentino (senza dubbio «d’interesse nazionale. Tutti i dizionari moderni […] rinviano ad essa»: Castellani 1994 : 168; oggi dovremmo dire quasi tutti), è spesso rimasta lettera morta, perché non insegnata nelle scuole. Dunque il parlato spontaneo si è diffuso a spese dei dialetti in maniera anarchica, sottoposto a sollecitazioni di ogni tipo, spessissimo contraddittorie e del tutto casuali, come quelle derivanti dalla presenza massiccia di radio e televisioni a Roma e a Milano. Ma una crescita linguistica senza alcun ancoraggio “grammaticale” porta ad una situazione di entropia, come avvenne nell’Italia del Quattrocento. Infatti oggi mi pare che l’osservazione obiettiva della realtà ci debba far riflettere, per esempio, sull’affrettata previsione di coloro che, fiduciosi nelle “magnifiche sorti e progressive” della lingua italiana, ritengono che si arriverà prima o poi ad una semplificazione tra gli innumerevoli allofoni tipici delle varietà regionali. La sensazione sempre più forte tra i linguisti è che senza una regola grammaticale riconosciuta come tale, in presenza di spinte contraddittorie provenienti dai dialetti (pur “annacquati” quanto si vuole), si va in una direzione centrifuga e non verso una pronuncia comune in Italia. Opportunamente Berruto, cercando di delineare un quadro prospettico del progresso dell’italofonia, si è chiesto «se non si stia di fatto già arrivando al momento di stabilità, di equilibrio e di ampia compatibilità fra italiano e dialetto, ciascuno ben consolidato nei suoi propri domini e con una possibilità di sovrapposizione funzionale nei domini per così dire di mezzo» (Berruto 1994 : 23).
Naturalmente, il panorama delineato da Berruto non è del tutto omogeneo, e la stessa conservazione dei dialetti è diversa da regione a regione, da luogo a luogo: in Veneto e in Sicilia è certo maggiore che altrove, a Bologna e nelle città venete maggiore che nelle altre grandi città del Nord, nel Sud, generalmente, maggiore che nel Nord, nelle campagne e nei piccoli centri maggiore che nelle città (cfr. da ultimo Mengaldo 1994 : 115).
È un fatto però che i dialetti mostrano ancora una loro certa vitalità, specie nelle spinte di sostrato che riescono a conferire alle varietà regionali di italiano; spinte che, come abbiamo visto, hanno indotto taluni studiosi a parlare di un processo di ridialettizzazione. Per giunta, il maggior fattore di standardizzazione linguistica, cioè la televisione, presenta vari modelli di parlato, spesso in conflitto tra di loro (cfr. Sobrero 1971 : 171-76), anche sul piano fonetico.
Di fronte ad una situazione del genere, cioè di effettiva entropia, in mancanza di punti di riferimento certi, c’è il rischio che i pregiudizi sociali nei rispetti dei meridionali, aggravati dalla pesante crisi economica e dalla crescente disoccupazione nel Mezzogiorno, accrescano il già diffuso sentimento razzistico antimeridionale nel campo linguistico.
La resistenza ed anzi la reazione del Centro-Sud, di cui sopra si è parlato, all’invadenza di pronunce settentrionali e neostandardizzanti, non costituisce un fatto del tutto negativo, ma offre la possibilità per tentare di riconquistare una coscienza linguistica democratica. Forse, ancora oggi la pronuncia basata sul toscano, o meglio lo standard tradizionale, per quanto per certi aspetti più simile a un’entità “virtuale”, rappresenta il punto d’incontro a mezza strada di tutti gli italiani e consente di reagire contro ogni “razzismo” linguistico in due modi: riducendo i motivi di presunto scandalo della pronuncia meridionale e contribuendo a ridurre il prestigio linguistico delle varietà settentrionali di italiano nel momento in cui esse non mostrano più capacità di espansione. Voglio dire che, se uno studente delle scuole medie o superiori studiasse i primi rudimenti della fonetica italiana e fosse messo in grado di capire che pronunce settentrionali come zucchero e casa (rispettivamente, con z e s sonore), béne e vénto (con e toniche chiuse invece che aperte) sono di origine dialettale, probabilmente imparerebbe una pronuncia in cui in tutto il paese si potrebbe riconoscere e nel contempo avrebbe occasione e stimoli per studiare le principali caratteristiche del dialetto della propria terra, a cominciare da quelle fonetiche.
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